Chimamanda Ngozi Adichie è una grande scrittrice nigeriana. La sua bellezza è incredibile e la sua capacità comunicativa è prorompente. Se pensi che non possa avere molto a che fare con i piccoli business, prosegui e vedrai che ha qualcosa di grandissimo da insegnarci.
Adichie racconta, in un bellissimo discorso TED, che da bambina era una lettrice precoce. A quattro anni leggeva già molti libri, soprattutto romanzi inglesi o americani per bambini, perché erano gli unici facili da reperire. Quando a sette anni ha iniziato persino a scrivere le proprie storie, sorprendentemente queste avevano come protagonisti strani personaggi biondi, con occhi azzurri, che si lamentavano della pioggia e che bevevano birra allo zenzero. Ovviamente un bambina mai uscita dalla Nigeria, difficilmente poteva aver visto persone dalla carnagione lattea e non aveva idea di cosa fosse la pioggia insistente. Tanto meno la birra allo zenzero. Ma era convinta che le storie potessero avere come protagonisti solo questo tipo di personaggi, perché erano le uniche storie che lei avesse mai potuto leggere fino ad allora. Solo quando è entrata in contatto con i primi libri africani, ha scoperto con grande sorpresa, che anche le persone con le quali lei poteva identificarsi, facevano parte della letteratura. Anche lei poteva fare parte della letteratura.La teoria della Storia Unica
Crescendo, Adichie è diventata una grande scrittrice, ha viaggiato, ha tenuto conferenze e porta avanti la sua battaglia contro la “Storia Unica” (the Single Story). La Storia Unica di cui parla la scrittrice è relativa soprattutto alla Storia Unica inventata da alcuni popoli e alcuni poteri, a proposito di altri popoli. Descrivere un popolo come “una sola cosa”, senza parlare delle mille sfaccettature di quel popolo, crea inevitabilmente preconcetti e schemi mentali distorti. Tuttavia, astraendo, qualsiasi percezione può essere distorta da una visione solo parziale delle cose. Se trasliamo il concetto dalla letteratura alla comunicazione in generale e a quella commerciale, se al posto dei bambini biondi di cui parlavano i primi libri letti da Adichie, ci mettiamo i grandi marchi della pubblicità e del branding tradizionali (Coca Cola, Apple, Ikea, Mc Donald’s etc…), vediamo come la percezione di questo tipo di comunicazione può essere distorta come lo era quella della piccola bimba nigeriana. Vedere costantemente, incessantemente, metodicamente, quel tipo di comunicazione, con quel tipo di protagonisti, quel tipo di investimento anche, e quel tipo di storia, ci porterà a pensare che la comunicazione dovrebbe essere fatta da loro, come loro, solo da realtà simili a loro, in un contesto che solo loro possono creare.La comunicazione è di tutti. Le storie sono di tutti.
Le storie sono di tutti, tutti possono raccontarle e tutti possono fare comunicazione per qualsiasi scopo. Le piccole realtà hanno una forza comunicativa profonda e spesso inesplorata. Vivono di verità poco esposte, ma bellissime. Vivono grazie alle passioni delle persone, agli sforzi quotidiani e all’inventiva a volte esplosiva dei loro creatori. E questo crea storie straordinarie nell’ordinario, che potrebbero essere traghettate in una comunicazione eccellente. Diversa, di certo, da quella dei grandi marchi, perché diversa deve essere, ma forte e molto significativa, al di là del budget a disposizione. Semplicemente, troppo spesso, i professionisti, le piccole imprese, i piccoli commercianti, si sentono “lontani” dal campo della comunicazione. Perché? Perché la comunicazione è stata colonizzata e influenzata per decenni da grandi marchi, quelli che potevano muoversi con grandi budget, che avevano spazi televisivi dai costi esorbitanti, che compravano intere mura medievali per esporre il proprio marchio. Solo ora, con il web, con il digital in generale, la democratizzazione della comunicazione ha permesso anche ai piccoli di farsi attori del processo di comunicazione, relativizzando l’importanza del budget. Con armi a volte alla pari, rispetto ai mastodonti multinazionali. Tuttavia si percepisce ancora “inadeguatezza”, paura, lontananza, rispetto alle tecniche che vengono tuttora relegate nella sfera “dei grandi”, dei forti e dei “ricchi”. Il riconoscimento del proprio valore, del proprio potenziale e soprattutto della possibilità di comunicarlo, non sono concetti ancora a fuoco per molti piccoli business. Il “piccolo” è stato investito, in un passato in cui il dominio era solo dei grandissimi gruppi, di un’aura di “debolezza”, di “inferiorità”. Adichie ha usato il termine nkali, che nella lingua della sua etnia, significa all’incirca “essere superiori, più grandi di qualcun altro”. E quindi poter fare. Ma è un concetto imposto culturalmente da abitudini e ripetizioni più o meno veicolate. La storia unica non esiste e non deve esistere, soprattutto in comunicazione. Né per quanto riguarda chi la fa, né per quanto riguarda i contenuti veicolati. Prendiamo in mano le nostre storie e mostriamole al mondo con cuore e testa! Concludo con un pensiero di Adichie stessa:when we reject the single story, when we realize that there is never a single story about any place, we regain a kind of paradise. (quando rifiutiamo la Storia Unica, realizziamo che non esiste alcuna storia unica per alcun luogo, guadagniamo una sorta di paradiso)